Promo L'Inverso, l'intervista

Abbiamo intervistato Emanuele Noce, in arte Promo L'Inverso.
Nato e cresciuto a Terracina (LT), classe ’88, è un produttore e arrangiatore italiano dal sound e dallo stile eclettico che rivelano una forte contaminazione di generi. Gestisce insieme ad Axl Zardoni, Chiara Bettiga e Filippo Rossi lo studio brianzolo “Golden Eye”. Vanta crediti per artisti del calibro di: Mezzosangue (“Umanista” nell’album “Radici e Corone”, certificato oro FIMI), Kento, Lucariello, Prince, July B, Easy One, Shakalab, Laioung, Lord Madness, Metal Carter e molti altri.
Quali sono i tuoi progetti attuali e futuri?
Insieme ad altri tre soci abbiamo un hub creativo in Brianza [Golden Eye Studio, n.d.r.] dove ci sono molti artisti emergenti e lavoriamo su tanti altri progetti di artisti affermati o storici della scena. Personalmente sto portando fuori estratti dal mio primo album da producer, in cui ho raccolto un po’ tutti gli artisti con cui ho collaborato e con cui ora ho un rapporto umano, pionieri storici del rap italiano. Volevo fare un disco che fosse nei miei gusti personali, racchiudendo un po’ quella che per me è stata l’essenza della golden age italiana, o almeno dei miei ascolti da ragazzino. Un sogno da coronare che sono riuscito a realizzare.
Oltre a portare avanti due progetti della mia scuderia come Nova King, due ragazzi kosovari molto bravi, e Shak Manaly, parallelamente al mio album, ultimamente sto lavorando molto su altre cose. Quello che ci interessa è dare un tappeto sonoro e professionalità agli artisti, indipendentemente da quanti ascolti facciano o da quale etichetta abbiano alle spalle. Anzi, se ne abbiamo la possibilità, ci investiamo noi sugli artisti che valgono. Nel frattempo, con l'album di Lord Madness uscito il mese scorso siamo in tour, e io suono anche con tanti altri artisti in giro per l’Italia. Insomma, fermi non si sta mai.
Qual è la cosa che più ti motiva a fare questo lavoro?
È l’essere un po’ lo “psicologo degli artisti”, nel senso che il mio lavoro non è solo stare lì a mixare il pezzo o fare una base su commissione; il mio lavoro è capire al volo la chiave del pezzo dell’artista, far sì che il messaggio arrivi. Ogni giorno è una sfida nuova. E siccome sono molto empatico, se lavoro a un disco assorbo così tanto il mood del progetto che cambia totalmente il mio stato d’animo. Per me è motivo d’orgoglio, perché va oltre il lavoro su commissione: significa essere davvero un artista ed avere l’emotività giusta per comprendere cosa vuole comunicare la canzone.
Un po’ come un sarto che cuce un abito su misura: esalta quello che sono le caratteristiche della persona.
Una cosa che ti fa veramente arrabbiare del tuo lavoro, del mondo che ti circonda ogni giorno?
Che tra Instagram e altri social ormai non esiste più la privacy. Non sono un produttore conosciuto a livello nazionale, ma posso permettermi di avere più telefoni per gestire il lavoro, e a volte quel filtro che separa la vita privata da quella professionale viene un po’ a mancare. Ancora di più se hai una famiglia. In occasioni come le feste può capitare che il telefono esploda di messaggi e chiamate. Bisognerebbe capire che c’è una sfera privata e che come tale va rispettata. Una cosa la devo dire, però: i ragazzi che lavorano con me lo capiscono e lo rispettano. E spesso sono proprio i più giovani ad avere più educazione in questo.
Cosa pensi del discorso “hype”?
Penso che il discorso hype sia un po’ abusato ultimamente, ma è uno di quei termini attualizzati di cui ormai non si può fare a meno. Purtroppo, le nuove generazioni – trovandomi anche a parlare con addetti ai lavori – non riescono a gestirlo, soprattutto con la quantità di budget che gira per questo tipo di cose. Se avessi quella possibilità, uno dei miei obiettivi sarebbe fare due dischi l’anno con un anticipo garantito che mi permetta di vivere e concentrarmi solo su quello, senza dover fare un milione di altre cose. Però saprei amministrare i soldi e il discorso hype. Quindi, a volte, anche chi è del settore dovrebbe capire meglio a chi dare queste possibilità.
Ti piacerebbe lavorare di più su un prodotto ragionato piuttosto che “veloce”?
Da quel punto di vista riesco a fare 50 pezzi a settimana, ma poi… cosa resta?
Nel senso, la ricerca del suono, dov’è? Non esiste più la concezione di fare album che rimangano, anche perché gli artisti non ci campano più da quel punto di vista: i pagamenti sono bassi, i margini sono pochi, soprattutto per gli emergenti che sono molto penalizzati. Dall’altra parte, per mantenere l’hype devi pubblicare a raffica.
Però per me la qualità conta sempre più della quantità.
Quali sono le influenze musicali che ti hanno portato a trovare ispirazione per il tuo lavoro?
Da ragazzino ero un grande fan dei Colle der Fomento... poi ho amato la scena milanese, tipo Ape, che tra l’altro oggi è un amico, Esa, poi Tormento, con cui mi sento anche adesso, e i Club Dogo.
Avevo questa cosa che per evadere da Terracina, periodicamente prendevo il treno e andavo a Milano o a Roma solo per camminare tra i palazzi della metropoli e ascoltare la musica del posto. Mi facevo questi “mega-trip”, sentendomi a New York. Era il mio modo per evadere.
A livello di ascolti, sono un grande collezionista di vinili e amante del funk, del reggae, del soul, del rock progressivo, piuttosto che della dance e simili. Infatti, mi piace mischiare un po’ tutto, tirando fuori un mio sound. Essere un ex batterista mi ha aiutato molto anche in questo.